El tenp, a brosa

A me, le favole dei nonni, le loro battute, il loro modo di esprimersi, sono sempre sembrati come un qualcosa di magico, dei tesori misteriosi che hanno il potere di farci incantare, affascinare e stupire. E penso che questa magia, per la quale le loro favole appaiono a tutti tanto dolci e piacevoli stia nel mezzo attraverso cui le raccontano: la parola, la lingua, il loro inseparabile amico Dialetto, tanto fedele e amato. E così le loro storie, rimandanti al loro tempo, alla loro quotidianità, così diversa dalla nostra, ci sembrano quasi delle fiabe.

Da bambina ero così ammaliata dai loro racconti e quindi dal loro mondo, che mi pareva così diverso da quello in cui vivevo. Negli anni in cui sono vissuti i miei nonni e bisnonni lo stile di vita in particolare, ma anche le abitudini, il modo di osservare, studiare, concepire le cose, di relazionarsi con l’ambiente circostante, la maniera con cui si considerava il mondo e lo si guardava, le passioni, le necessità erano completamente differenti da quelle del giorno d’oggi. E non solo. Anche il tempo (el tenp) veniva percepito in modo diverso; infatti, per rispondere alle vecchie esigenze, esso era misurato non tanto dal susseguirsi degli anni, ma piuttosto dall’alternarsi delle stagioni (le staiòn): l’influsso delle fasi lunari sulla vita quotidiana e sull’ andamento del tempo era importante, determinante, cosicchè più che il mese del calendario, contava soprattutto quello lunare. Si prestava grande attenzione ai segni premonitori del tempo, del clima, dei giorni (i dì) e dei mesi successivi (i méss) e tale osservazione ripetuta di generazione in generazione era stata codificata in detti e in proverbi che costituivano una vera scienza meteorologica: uno fra i tanti, penso il più usato: ros de sera, bel tenp se spera, bianc de matina, bel tenp se incamina. Indizi del tempo erano tratti da eventi che oggi definiremmo insignificanti, da cose che ora ci sembrano la normalità e quindi non apprezziamo e definiamo banali. Indizi del tempo erano tratti dall’osservazione del cielo (el ciel), delle nuvole (le nuvoe), degli insetti, degli animali, erano tratti dal suono più o meno forte delle campane dei paesi vicini a seconda della direzione del vento (el vènt) …. Indizi di pioggia (piòva), di temporale (tenporàl) o di grandine (tenpèsta) erano invece il canto del gallo, il volo delle rondini, l’umidità nelle cantine.

Una parola che, invece, mi ha sempre affascinata è brosa, ossia brina. Questo vocabolo discende dal verbo brusare, bruciare, che proviene a sua volta dal latino brusiare, di etimo incerto, perché la brina ‘brucia’, appunto, i raccolti. Da brosa deriva poi brosada, ovvero brinata, formazione e deposito di brina. Qualcuno con la parola brosa indica anche la rugiada, ma penso che, per indicare quest’ultima, il termine aguath sia più adeguato, almeno nelle zone in cui vivo io. Così, come i nonni, svegliandosi in un gelido mattino d’inverno e guardando fuori dalla finestra quel manto bianco che è la brosa, riescono ancora a stupirsi ed incantarsi come bambini ed esclamare la par na nevegada, così noi giovani dobbiamo difendere e preservare, lasciandoci affascinare, questa lingua piena di sfumature e immensi significati che è il vecio parlar.

Valentina De Pizzol